Prova a tornare dal Congo
Per lavoro ho avuto la fortuna di viaggiare in diversi angoli della terra, taluni parecchio remoti, ma ricorderò sempre il ritorno dal Congo come una vera e propria odissea, alla faccia di Ulisse.
Era il 2009 e dopo circa 40 gg di cantiere in condizioni climatiche e ambientali a dir poco proibitive, giunge finalmente il momento di tornare a casa. Giusto per avere un’idea, il nostro soggiorno equatoriale è stato allietato costantemente da una temperatura rovente accompagnata da una umidità relativa del 90%, praticamente come respirare acqua. Calda. Uguale giorno e notte. L’unica differenza tra il giorno e la notte era il buio. Tutta esperienza.
Ci troviamo a Pointe Noire, sulle sponde dell’Atlantico, con i bagagli pronti e la voglia di tornare in Italia ognuno nella propria dimora. Il nostro itinerario prevede alcuni scali aerei, da Pointe Noire a Brazzaville (la capitale), per poi saltare su fino a Parigi e riscendere a Roma e infine a Cagliari. Tutto programmato a puntino dalla logistica, tutto pronto. C’è solo da far passare alcune ore.
Il primo volo è programmato per la domenica e il nostro autista è informato del fatto. Gabriele, uno dei nostri referenti locali, però, ci mette in guardia: “Guardate che domani è domenica, può essere che l’autista si alzi dal letto come no, nel caso abbiate problemi fatemi sapere”. Detto e (non) fatto.
L’autista non si vede. Attendiamo, aspettiamo, confidiamo, ma poi finalmente l’unica cosa utile: capiamo. Non sarebbe arrivato nessuno. E chiamiamo il fido Gabriele, che ci porta in aeroporto, dove arriviamo in abbondante ritardo, abbastanza da perdere il volo.
Momenti di panico.
Proviamo quindi a capire come si fa a tornare a casa da un posto che ne dista alcune migliaia di chilometri.
Io, unico della comitiva di quattro italiani (non è ancora una barzelletta, ma lo sta diventando), sono l’unico che parla francese. Vado al desk della compagnia del volo interno, sfoggio il mio impeccabile accento francofono misto isolano e illustro la situazione. La ragazza, con sguardo a metà tra il disprezzo e il disprezzo, con molta serenità mi rende edotto sul fatto che avevamo perso l’aereo.
E grazie al Kaiser! Che minchia devo fare?
Con la sufficienza di cui sopra, mi dice che mi basta prendere il volo successivo per Brazzaville. Chiedo se devo fare un altro biglietto, e mi prende per scemo, ancor più perché chiedevo con insistenza se era valido il medesimo ticket. All’ennesima conferma mi arrendo e con molta perplessità mi reco dai miei compagni di viaggio e dico loro che dobbiamo prendere il successivo. Aggancio un ragazzetto locale, di quelli che negli aeroporti si offrono di darti una mano in cambio di pochi spicci, e gli spiego la situazione. Riusciamo così a introdurci in una mega sala affollata all purposes: qui potevi, avvolto in un caldo infernale, effettuare il check in, un funerale o un rito ecclesiastico, tanto non se ne sarebbe accorto nessuno, c’erano più di 1000 persone in uno spazio che poteva a malapena contenerne 50. In quest’area non esiste alcun display, tutto è basato su un passaparola, su uno studiare le mosse e i movimenti altrui, su occhiate sinistre e destre, in attesa che accada qualcosa.
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