Sono molto orgogliosa di aver provato una volta nella mia vita l’ebbrezza del naufrago, anche se non credo di poter dire lo stesso per chi si è trovato con me.
Torniamo indietro di qualche anno, in un’epoca in cui internet era ancora una creatura domestica e i telefonini si usavano al massimo per messaggiare. Con alcuni amici decidiamo di visitare Venezia e, nell’occasione, il roseto sull’isola di San Lazzaro degli Armeni. Tra la cu*opesanteria di non prendere il treno troppo presto, le chiacchiere, il caffettino per svegliarsi ecc., si fanno le 11 di mattina quando ci mettiamo in fila per il traghetto.
“Ma è quasi ora di pranzo…”, fa uno del gruppo e io, inutilmente gradassa, lo prendo pure in giro. “Tranquillo, ma vuoi che non ci sia un ristorante, un bar o almeno un baracchino dei panini? A Venezia?”.
Saliamo sul traghetto che è quasi mezzogiorno e arriviamo di lì a poco sull’isola. È una giornata bellissima di inizio estate, un sole che picchia dal cielo senza una nuvola. Scendiamo, il traghetto riparte e noi ci avviciniamo alla porta del convento all’interno del quale c’è il famoso roseto. Sprangata. Bussiamo, esce il portinaio. “Buongiorno, possiamo entrare?”. “No, le visite riprendono alle tre”.
Il nostro treno per il rientro parte alle quattro. Mi guardano tutti malissimo.
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