Torino, AD 2021
Sentite, so che questa storia ha parecchie robe in comune con quella che ho raccontato ieri (link), ma dovete sapere che il mio adagio preferito è: “Sbagliando si sbaglia di nuovo”, capi’? Cioè, ogni tanto ci sbatto il grugno e non ci ricasco, ma quella che vi racconto oggi è una di quelle storie in cui, di fronte agli stessi pericoli, mi ci sono buttato convinto di affrontarla come un’ipotetica terapia d’urto.
Invece ‘sta ceppa di milza incartapecorita impanata di segatura arsa con fuochi fatui.
ANTINFERNO
Bene. Nasco e cresco a Torino, e propongo alla mia compagna di visitarla in estate per fargliela scoprire. Molti di voi diranno: “Ma perché non andate al mare ahah ihihi eheh”. Perché no.
Partiamo da Roma. Abbiamo prenotato un bilocale vicino al centro della città sabauda per 6 giorni e ci attende un lungo viaggio in autostrada. Arriviamo con forte ritardo per via delle code e la host, gentilissima, ci accoglie come se nulla fosse mentre ci inginocchiamo sui ceci offrendoci in sacrificio a Satana per essere arrivati alla sera anziché nel pomeriggio.
6 giorni passati benissimo, devo dirlo. Bilocale bellissimo, posizione strategica, città – ovviamente – bellissima e tempo… pure. Anziché la torrida estate becchiamo una perturbazione autunnale che rende tutto più vivibile. Sì, ma ora pigliate il miele di cui vi ho appena cosparsi e mettetelo da parte, ché mo’ c’è da conficcarsi una mazza chiodata in ogni orifizio.
Dunque. La città ci fa stare bene, decidiamo di estendere il soggiorno. Contattiamo la host: “AscoRti, nin è che per puro kasen possibile est too keep il bilocale für qualche dì ancora, sore’?”. La signora, mortificata, ci dice che or-ora un’altra coppia ha prenotato esattamente dal giorno in cui avevamo fissato il check-out.
Io e la mia compagna ci guardiamo terrorizzati. Si sente un tuono, cadono lacrime di sangue dal cielo, parte O Fortuna di Carl Orff dai Carmina Burana, lo sentiamo proprio: “O Fortuna/velut luna/statu variabilis”. Fatalisti, uno peggio dell’altra, ci diciamo: “È segno che dobbiamo andare”. Parte l’Hitler di Tarantino che risponde: “Nein! Nein! Nein! Nein!”. No, decidiamo di non andare via, quindi cerchiamo un altro posto in cui continuare il soggiorno.
Troviamo un monolocale grazioso, poco distante dalle meraviglie del Valentino. Prezzo onesto, con la titolare che si descrive con parole piene di gioia e giubilo: “Io ezzere una que lovva parecchio viaggaren io trattare miei ozpiti come se qvesti ezzere mie fratelli mi casa es tu casa”, mado’ mi sento Malgioglio che dice “adoro”, dal presobenismo che mi viene.
Bene, jamme. Arriviamo all’orario stabilito e suoniamo il campanello come da accordi. Messaggio dalla host: “Ragazzi, potete ritirare le chiavi presso la gelateria del civico 666 (numero di fantasia, ma non troppo)”.
Comescusa? Guardo la mia compagna: “Cioè, fammi capire: io devo andare dal gelataro e dirgli: ‘A’ coso esci le chiavi, semo quelli daa prenotazione’, mentre c’è chi slingua il cono patate-pistacchio al mio cospetto?”. Mi dice che sono il solito polemico e le do ragione. Vado al civico 666, entro assottigliato e per gli effetti della fobia sociale inciampo sullo scalino che quasi m’ammazzo, divento rosso-sessantottino e con la voce tremante per l’imbarazzo (ciò che riesco ad emettere dall’apparato fonatorio somiglia più a un belato che a un insieme di periodi di senso compiuto) chiedo le chiavi del monolocale.
Siamo di nuovo sotto il portone, lo apriamo e ci ritroviamo in un normalissimo androne. Saliamo al primo piano ed eccoci di fronte all’ingresso. Infilo le chiavi.
INFERNO
Avete presente il sottofondo industrial di Stati Di Agitazione dei CCCP? Ecco, il rumore della serratura fa esattamente quello.
Strack! Strack! Strack! Strack!, quattro mandate e siamo dentro.
Buio.
È uno di quei momenti in cui sei al buio più totale e non trovi il f*ckin’ interruttore che ti salva dalle tenebre. Illuminiamo con la torcia del telefono come se fossimo in uno spin-off di The Blair Witch Project – io, nei miei pensieri intrusivi, mi immagino di trovarmi Regan McNeil presa malissimo che ondeggia in fondo al corridoio – e troviamo l’interruttore.
Luce.
Ci troviamo in un corridoio strettissimo, di fianco a un inutile e ingombrante mobile preso d’assalto da suppellettili impolverate. Impolverate. Di fronte a noi c’è una porta. Avanzo lentamente come in una soggettiva di Dario Argento e apro. Siamo nella stanza da letto+cucina. C’è odore di polvere e muffa. Supero il grande tappeto e avanzo in punta di piedi verso la porta finestra con le persiane in legno. Apro, sono in un balconcino di 2 millimetri per 3 con un tizio su un’amaca che dal balcone del palazzo di fronte inizia a guardarmi incuriosito.
Sento la mia compagna che fa: “Ih!”. Appuriamo che nella stanza c’è Pazuzu nella forma di due cavallette che saltellano dal tavolo al piano cottura. Due. Cristi . Di. Cavallette. Immagino il violento drum’n’bass che introduce Charlie Big Potato degli Skunk Anansie. La colonna sonora perfetta.
Calmacalmacalma – calmaunca**o – calmacalmacalma. Rispettiamo, siamo cruelty-free ma impressionabili, ma sempre cruelty-free. Afferro un fazzoletto mentre sudo freddo e tossine, una per una riesco a ricondurle fuori verso la libertà. Bene. La mia compagna ha l’espressione di un condannato a morte. Spazi angusti, pulizia 0, polvere e muffa. E cavallette di cui potrebbero nascondersi altri esemplari.
Mi dice:
– Qui stiamo come quella volta a…
– Non dirlo! Zitta!
– Eppure me pare che…
– No!
– È come Firenze!
Divento Massimo Decimo Meridio e mi faccio condottiero: “Non finirà come quella volta”. Decido di contattare l’assistenza – non svelerò il nome del servizio presso il quale abbiamo prenotato – ed evitare la tragedia. Prendo il telefono digrignando i denti.
Non c’è campo. Torino. Non c’è campo in quel loculo vicino al centro di Torino.
Poco male, in questa casa c’è il Wi-Fi. Ecco le credenziali su quel foglietto appeso al muro. Mi connetto, digito la password. Non accede. Non accede! Rifaccio, niente. Rifaccio, niente.
Ah sì? E io esco fuori e contatto la host con la connessione dati, gnegnegne. Scendo in strada, le scrivo. Resto fuori mezz’ora, lei non risponde. Faccio il suo numero. Spento. Ah sì? Io contatto l’assistenza. Riesco a connettermi con un’operatrice che gentilmente mi chiama. Spiego il problema (casa sporca, nessun Wi-Fi, host latitante). Mi dice di attendere qualche ora. ‘Cooome qualche ora venite a prenderci in elicottero siamo alla deriva e mi costringe a parlare senza punteggiatura come uno sh*tpost da boomer muovetevi maydaymayday’.
Nel frattempo ci accorgiamo di essere in ritardo per la visita al Museo Egizio. Corriamo, dobbiamo fare qualcosa. Arriviamo puntuali, e le bellezze custodite ci danno ristoro. No, un ca**o, il nostro cervello è in modalità “che famo?”. Usciamo dal museo e mi squilla il telefono, è l’assistenza.
“Non siamo riusciti a contattare la host”. Spiego che noi non abbiamo alcuna intenzione di pernottare in quel posto, che sono un loro cliente da anni e che vorrei un’altra sistemazione senza aggiungere un centesimo. Mi dice che la policy aziendale non prevede interventi di quel tipo, e che posso lasciare la casa ricevendo un rimborso parziale.
Insisto: “Senta, vi ho mandato anche le foto di ciò che abbiamo trovato, le pare che si possa liquidare la cosa con un rimborso parziale?”. (Nella foto: io che parlo con l’assistenza). L’operatrice rimane ferma su quanto detto e dice che la cosa si può risolvere soltanto con la proprietaria. Che non risponde.
Siamo di nuovo nello stato mentale di chi deve resistere in mezzo alla me**a per una notte. No, non ce ne andremo perché la struttura è stata pagata. Veniamo dal sottoproletariato, facciamo cose low-cost per questo. Regalare una notte che non sfruttiamo, mi spiace, anche no. Cediamo a questo penoso ricatto e torniamo al monolocale che è ora di cena.
INFERNO NOTTE
Fornelli a induzione che non funzionano. Wi-Fi sempre assente. Cattivi odori. Polvere. Squilla il telefono (che prenda una misera tacchetta vicino alla finestra), è la host.
– Pr… Se… Fa… Io… Sen… Ma…
– Eh, come se fosse antani sbiriguda assottentai loro fandi fondi fredi sciari fari
Le faccio capire che siamo senza linea, dunque riscendo in strada per richiamarla. Spento.
Sono le 22, io voglio morire malissimo. La storia si ripete: la mia compagna si addormenta (per sua fortuna), io inizio a sonnecchiare. All’1 vengo svegliato di soprassalto da voci disumane. Sono le tizie dell’appartamento di fianco, stanno facendo una festa e parlano a voce altissima, ridono sguaiatamente e fanno “uuuuuhhhhh” “ooohhhh” “eeeeehhhhh”.
Okay, stavolta siamo in un appartamento. Devo solo suonare dai vicini e dire loro: “Manche führen, manche folgen/Herz und Seele, Hand in Hand/Vorwärts, vorwärts, bleib nicht stehen/Sinn und Form bekommt Verstand!”. Esco dal monolocale, cerco il portone dei vicini ma… mi accorgo che le sguaiate sono nel palazzo di fianco.
Basta.
Ricorro al rimedio-Armando (ex coinquilino che come me mal sopportava i rumori notturni): rumore marrone nelle cuffie che mi isola dal mondo esterno. Dormo, finalmente, stremato.
L’indomani mattina alle 8 siamo fuori da quel posto di me**a. Mi precipito a demolire host e struttura nelle recensioni. Due giorni dopo l’app delle Poste mi notifica un movimento in entrata.
L’assistenza mi ha rimborsato 5 euro.
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